Patrizia Rampazzo / Note critiche

20 Maggio 2020 Redazione A&S 1040

NELLA FOTO: RAMPAZZO CRITICA.

TESTO CRITICO #1
(di Luiza Samanda Turrini, 2009)

Il Viaggio Lento di Patrizia Rampazzo
L'arte di Patrizia Rampazzo racconta di tragitti, traversate, spostamenti, oscillazioni pendolari fra nomadismo e stanzialità. Del movimento dell'uomo nel mondo, della sua collocazione dinamica nel paesaggio, o del movimento di chi sceglie di occupare un posto fisso ma continua a tenere in moto lo spazio interiore del pensiero e della memoria. Le declinazioni del viaggio vengono comprese fra l'eterno ritorno, residuato della logica greca, che fissa un dogma perduto da ritrovare, un'identità fissa da ricostruire, e il viaggio come stile di vita leggero e aereo, supportato da un'identità mutante. Alla deriva, come il plancton che si lascia trasportare dai flussi della corrente. Cambiare setting, per il cambiamento del paesaggio che si può sperimentare attraverso i sensi, ma soprattutto per il suo contraccolpo, che lavora dall'interno e cambia ciò che siamo e ciò che siamo stati. Patrizia Rampazzo adotta la poetica delle zone di confine, degli spazi interstiziali in cui le propaggini dei conflitti e delle contraddizioni si fondono. Forme elementari, moduli di poligoni e buchi che ricordano lo scorrimento veloce delle cabine di un treno oppure lo skyline di una città. La città si pone concettualmente come punto di partenza, punto di arrivo, e nello stesso tempo antitesi del viaggio, ma nelle opere della Rampazzo viene sublimata nella metafora del viaggio stesso. Stanzialità e movimento sono elementi complementari, il movimento è funzionale alla ricerca di un posto perfetto in cui mettere radici, e l'utopia di questo sito perfetto è il pungolo che spinge a spostarsi. Nell'era del villaggio globale, in cui si coniano nuovi ambiti disciplinari per studiare la dromologia. Patrizia Rampazzo rivela che l'essenza del viaggio dell'uomo è la lentezza, perché ogni spostamento è a doppia percorrenza: se il paesaggio esteriore può cambiare radicalmente nel giro di una manciata d'ore, quello interiore obbedisce a un tempo mitico che si muove in linee curve e secondo trame labirintiche. 


TESTO CRITICO #2
(di Enzo Campi, 2008)

L’urgenza della levata: uno sguardo sulle opere di Patrizia Rampazzo
Non essendo un critico d’arte nell’approccio a queste opere devo, per forza di cose, lasciarmi alle spalle qualsiasi cognizione di causa e abbandonarmi all’opinabile e impervio territorio degli sguardi e delle impressioni. Partiamo proprio dal territorio e produciamoci nella prima interrogazione. Esiste un territorio specifico ove l’artista può situarsi, anche ontologicamente, e caratterizzare il suo transito? Se tale territorio esiste, esso non può che identificarsi che in una sorta di chora idealizzata. La chora non è solo terra natale, madre e nutrice, è essenzialmente ricettacolo e porta-impronte. Raccoglie in sé il vissuto, lo riplasma e ne ridistribuisce i segni all’esterno. Qui il gesto artistico sembra costituirsi proprio a partire da un processo intestino volto a recuperare e riplasmare materiali, per così dire, atavici e genera una forma particolare di oblio. Ci si dimentica del caos che ci circonda, ci si dimentica della velocità, dei rumori assordanti e ci si cala in una sorta di dimensione altra. C’è un qualcosa di delicato e di soffuso che solo un ritorno all’originarietà e agli elementi naturali può evidenziare e amplificare. Il complesso polimaterico di questa ricerca espressiva proviene, anche e soprattutto, dalla terra. Cosa recita la serie de le “montagne sacre”? Sembra recitare il peana dell’ego me absolvo. Queste due opere (che sembrano rivestite come di un alone sacrale e salvifico) si auto-assolvono nella levata di una montagna deterritorializzata nel legno e nella scrittura. Scrittura invisibile. Scrittura di faglie, di fibre, di particelle di corteccia, ma anche di disgregazioni. Il legno è divelto dalla sua chora e ci viene consegnato nella sua essenza totemica. Il testo (l’ipertesto) risiede all’interno. Non un testo unico in un unico corpo, non il testo dell’unicità né tanto meno la corporeità o il farsi corpo di una cosa che si deterritorializza in altro da sé, ma solo gli innumerevoli frammenti da cui partire per la ricostruzione di un’unità. Sono le singole particelle a formare il tutt’uno organico e compatto. La corteccia non si limita a rivestire e proteggere, non è derma ma essenza pronta a disvelarsi. Questi bottoni di carne assomigliano sempre più ai cunei, ai geroglifici, alle lettere di una coscienza originaria. Sono le singole lettere a formare una parola. Parola di ciò che si rende sacro o che tende alla sacralità. E gli innesti in oro (quelli che più avanti definiremo intrusi) conferiscono una regalità al sacro. Come non pensare alla tavoletta d’argilla sumera o ai papiri egiziani? Cosa abbiamo qui? Per prima cosa un elemento naturale divelto dalla sua chora-madre. In secondo luogo il senso dell’ascesa, un tendersi verso l’alto. Totemia come levata, ma anche come messa in opera dei frammenti che costituiscono il suo corpo. In terza istanza la sacralità di un testo visibile solo nella sua invisibilità e udibile solo nella sua inudibilità. Non può esistere una traduzione esaustiva, ma solo il rinvio ad un ulteriore che è e rimane sempre da costituire. In queste opere non c’è un assoluto, c’è caso mai un relativo che rinvia ad un ulteriore mettendosi in discussione. Di cosa parlano queste opere? Parlano di un flusso che si fissa, di un buco che si apre per mostrarci l’intangibilità del senza fondo. Parlano anche di profumi, delle piccole differenze che deterritorializzano l’uguale, parlano della serie: opposizioni e giustapposizioni. Parlano di una ritrovata originarietà, di una terra e di una madre riconfigurate in un pezzo di legno che solca non tanto il mare quanto la possibilità di uno spazio (si potrebbe dire che insegua la sua spazialità). Parlano di un là che è sempre qui pur mettendoci in comunicazione con un altrove. La nostalgia del là è qui consapevole. Sembra addirittura cercata, come se non potesse esimersi dal riconfigurarsi. È pur sempre di oblio che si tratta. Ci si produce nel ricordo per meglio dimenticarsi o, se preferite, per attingere dal vissuto quello che serve per la successiva transvalutazione. Il récit di questi naviganti invita ad una sorta di contatto metafisico. Per meglio entrare nella loro intestinità si dovrebbe creare una linea di congiunzione che permetta di traslare dal là (luogo) al la (articolo al femminile che designa l’opera) e che ci permetta di arrivare fino al la (nota musicale). Perché le parole emanate da queste opere sembrano creare il loro aver-luogo in una sorta di canto. Ne le “montagne sacre” risuona il canto ieratico e rituale dei sacerdoti e delle vestali, nei “naviganti” forse un canto di eroi e di sirene, o il semplice connubio tra il rumore del mare e la voce degli uccelli. Ancora una volta: canto di ciò che non c’è, ma esiste tra le pieghe e le piaghe. Canto di ciò che non ci è dato a vedere. Qui c’è un assente sempre presente e che si mostra solo nella sua sparizione. La sparizione rivelata è ciò che ci permette di abitare la distanza. Distanze e prossimità insieme fuse e confuse (il là che è sempre qui). La nostalgia si dà proprio nel fatto che nessuna delle due può esistere senza l’altra, o quantomeno senza presupporre l’esistenza dell’altra. Ci sono delle macchine al lavoro in queste opere. Io sono portato ad idealizzare il laboratorio o l’atelier in una sorta di fucina, una fabbrica in cui i vari materiali sono messi a riposo in attesa di una nuova vita. Nuova e diversa. Ma sempre originaria. Seppur riplasmati, questi materiali conservano una sorta di dignità. Non perdono in connotazione, ma acquistano in possibilità. Una possibilità, per così dire, plastica ci viene offerta dalla presenza, pressoché costante di particelle e di elementi aggiuntivi e connotativi. Questi elementi, che mi piacerebbe definire intrusi – ma non perché si tirano fuori dal contesto o perché si estraniano dal materiale principe – appartengono alla categoria dei significanti. In poche parole – e non senza approssimazioni – producono senso Senso come gesto. Come possibilità per un a venire. L’intruso sembra invitarci ad entrare. L’intruso è lo straniero che vive in noi e che – rendendoci alteri – ci permette di aprirci. Ci si offre in pasto solo a condizione che l’intruso svolga sapientemente il suo lavoro. L’intruso è piccolo, minuto, opera con perseveranza e discrezione. Sembra quasi un guardiano posto sull’uscio (sarebbe più consono parlare di soglia) pronto a farsi da parte per permettere l’entrata. I buchi, i loculi, i vuoti di cui gli intrusi sono depositari e guardiani sono soglie metafisiche oltre le quali ci aspetta non tanto l’ignoto quanto l’intangibile. In tema di originarietà, ho inteso usare la parola intruso ricordando l’etimo: intrusus, cacciare dentro; inter dal gotico undar e dal sanscrito antàr (dentro), antara (fra, tra) e antram che sta per viscere, intestino e da cui è derivato il greco ènteron. E quindi spingere, agitare, vessare, muovere, guidare, passare attraverso, valicare, percorrere. La funzione dell’intruso è quella di guidarci tra le pieghe ove si produce il senso. Ho parlato di linee e in realtà tutte queste opere sono costituite essenzialmente da linee al lavoro: orizzontali (naviganti), verticali (montagne). Qui entra in campo “dimora” ottenuto per sovrapposizioni (sarebbe più appropriato parlare di un’ascensione) di linee orizzontali. Un po’ come dire che il verticale (natura ed essenza della levata) si può costituire dalle stratificazioni dell’orizzontale. Senso della levata. Ascensione in verticale e dilatazione dell’orizzontale. Perfetto connubio degli opposti. Riconciliazione dei contrari. È anche questo quello che intendevo parlando di intrusi e di stranieri: entrare in contatto con la propria alterità. Da un lato per meglio aprirsi e dall’altro lato per meglio levarsi. In “dimora” si compiono entrambi i movimenti contemporaneamente. Anche qui troviamo il solito intruso. Solitamente connotato dal colore oro. Perché il colore oro? Forse per certificarne la preziosità. Forse per richiamare la presenza incombente della luce. Come che sia, l’intruso si lascia investire dalla luce e la riflette. C’è una certa condizione eliotropica che viene messa al lavoro. Ridistribuzione equanime della luce? È forse di questo che si tratta?


TESTO CRITICO #3
(di Giorgio Celli, 1999)

In occasione dell'esposizione "Pittura Nomade" a Reggio Emilia
Le cose del mondo, le macchie sui muri, le pietre, i mattoni, le crepe, possono trasformarsi in una geologia dei sogni. Patrizia Rampazzo ridà un senso alle cose in forma di segno. Dove c'è la percezione, ci restituisce l'empatia. Dove ci sono dei colori, li trasforma in arcobaleni. Nella sua pittura riaffiorano, come da un naufragio nel mare dei miracoli, le forme della natura.