Fabio Rocca / Critica

30 Settembre 2022 Redazione A&S 303

NELLA FOTO: ROCCA CRITICA.

TESTO CRITICO #1
(di Enrico Crispolti, 1986)

Nell'ampio come nel piccolissimo formato il lavoro pittorico di Fabio Rocca colpisce per una qualità costante e singolarmente inalterata che riguarda esattamente l'intensità del tessuto materico-segnico, risultante in questa sua particolare pittura, evidentemente di qualità lirico-fascinatoria assai accentuata. Benchè possano distinguervisi due direzioni tematico-compositive (una tesa ad investire l'intera superficie in una sorta di transito di un insieme segnico su, quanto entro, un contesto materico preziosissimo; e un'altra invece tendente a definire in tale contesto un'ampia sagoma ovaloide centrale, evidenziata come su un fondo), in realtà è appunto sempre quella sorta di immersione in un tessuto costante di fascinatorie risultanze cromatiche del segno contestualmente intriso di materia, a rappresentare il senso di fare pittura di Rocca. Credo si possa dire che il suo caso è quasi di una medianica attenzione a rivelare tesori di immaginario materico-cromatico entro un contesto, che Rocca scava fantasticamente come una miniera inesauribile. E con un'accanita felicità che indubbiamente sorprende. Nel piccolo formato la preziosità della miniatura, nel formato più grande la preziosità di un tessuto magico, di un universo di inesauribili (anche se univoche) sorprese d'eventi materici segnico-cromatici: più che un percorso, il suo lavoro stabilisce una condizione rivelatoria che di volta in volta si rinnova in termini segnici diversi, secondo un'infinità di combinazioni possibili. Poeta della "texture" pittorica, direi per eccellenza, il lavoro di Rocca nei risvolti fantastici del contesto realizza il proprio pieno immaginativo, e lo configura appunto come rivelazione del fantastico assoluto attraverso ed entro la materia. Giacché anche il segno è tale in quanto soltanto realizzato entro la materia che è fondo e insieme immagine, esattamente infatti contesto di una totalità di valenza quale materia-colore. Il suo lirismo è tutto qui, in questo stato di fascinazione, del quale è per primo complice (e vittima, direi) il pittore, ma che il pittore riesce a trasmettere al suo spettatore. Una trama continua di eventi, come un suono sempre nuovo e tuttavia sempre giocato su un registro timbrico molto nettamente delimitato nei suoi confini. Di qui quella particolare intensità che sorprende e avvince nella sua stessa novità iterativa.


TESTO CRITICO #2
(Marcello Venturoli, 1989)

Il mio incontro con Fabio Rocca non poteva essere del tutto liscio e facile. Intanto l'artista è un immigrato a Napoli dalla Sicilia, non certo con la mentalità dello straniero in quel suo lindo, silenzioso, quasi elegante appartamento nel cuore della città vecchia, all'ultimo piano sui tetti di via Speranzella; ma, da quanto io avvertivo, come tutte le persone che, con forti radici altrove, vengono sempre da lontano, l'artista è un po' sulle sue, disponibile, ma distaccato, e in guardia, per esempio su certi entusiasmi, cene retoriche di partenopea esperienza. Lui, come siciliano, è indubbiamente più amaro, meno borbonico: in una sua autobiografia da epitaffio, che ho letto nel catalogo di una mostra personale nel 1984, dopo aver detto l'età, ha aggiunto che era venuto a Napoli venti anni prima per studiare e vi era rimasto. Punto e basta. Non che, come accennavo, sia restato un isolato. Se la sua professione di insegnante di inglese, la tendenza a fare della sua vita privata una sorta di micro paradiso terrestre, non contribuiscono certo a scaraventarlo in medias res picturae, si è fatto conoscere in certe fasce di addetti ai lavori, in virtù del suo merito. Se n'è accorto per esempio Vitaliano Corbi che in occasione di una mostra di Fabio Rocca nel 1985 scriveva di una "originale rivisitazione della pittura informale", di "superfici distese e levigate dalla spatola, irritate dalle imprimiture e dagli strappi, incise e graffiate dai rapidi segni". Era quasi mezz'ora, che, seduto in poltrona parlavo di pittura a casa Rocca con lui davanti, chiamandolo più volte in causa e l'artista sempre più, da riservato che è, quasi si chiudeva. Pareva preoccupato del fatto che io non rispondessi forse alla media di quei critici promozionali, che arrivano a fare i notai del già fatto. Invece io mi mostravo interessato alle sue tecniche, non in platea, ma dietro le quinte con lui, volevo sapere dei condizionamenti del suo spazio, del tempo solare che ha da dedicare al lavoro, volevo conoscere i titoli dei quadri e quali fossero per lui i maestri dell'Informale che più l'interessavano; insomma si domandava perché mai dovesse ricominciare daccapo, se avesse mai una volta cominciato un dialogo di quel genere. Intanto, da quando eravamo passati dal tè al vino (dì Alcamo) da me domandato timidamente, come a romperla con le distanze era sfrecciato nello studio un vitale bambino (mentre nelle altre stanze si udivano parole allegre di una moglie inequivocabilinente tale). Il pittore si era un poco sciolto, più che altro avvertendo la mia buona fede, il fatto che davanti alla sua pittura non c'era da fare discorsi organizzativi ma da capire come stesse in piedi: rigore e tradizione informale, materia non portata nello spazio mentale col metodo del mettere, né per dripping, né per strati di pennelli, ma col metodo del togliere. Ma la cosa che in certo modo via via lo stava interessando era il fatto che non mi bastava di festeggiare i risultati della sua arte, che esistevano, per fortuna, ma di rendermi conto del suo metodo, così esperto ed obbligato, come ha scritto Enrico Crispolti nel 1986, in occasione di una sua personale alla Galleria San Carlo di Napoli, nella "texture pittorica", in quel suo fare artigiano immerso sempre in uno "stato di fascinazione, del quale è per primo complice (e vittima, direi)". (La parentesi, naturalmente, è di Crispolti). L'illustre collega nella sua testimonianza aveva messo in luce "l'intensità del tessuto materico-segnico" ma non si era addentrato nelle più formali peculiarità, certamente perché, come il pittore stesso, non le ha credute importanti. A mio avviso il punto di partenza della mia indagine sull'arte di Fabio Rocca è stato entrare nel suo lentissimo, stratificato, sofisticato gesto che si consuma come quasi una calligrafia, una complessa composizione cromatica di strati e di decollages di parte di questi strati, togliendo l'artista con la spatola quanto ha messo, a diverse "profondità". I suoi sono colori ad olio stesi direttamente dal tubetto su una superficie, campiture o coperture di tinte unite che si sovrappongono in due, tre strati, sui quali l'artista interviene poi a togliere con la spatola, creando una sorta di finti collages, di reiterazioni di forme che appaiono, anzi affiorano, dagli strati inferiori. Certo questo decollage non è ortodosso come quello per esempio di Rotella; intanto perché talvolta l'artista a colore fresco e parzialmente giocato nella texture, comprime un foglio bianco, premendo anche coi piedi, e stacca, lavorando poi su quanto è restato impresso; altre volte a questa "tecnica mista" raggiunta con imprimiture (qualcosa di simile ha fatto anche Toti Scialoja), aggiunge invece notazioni di colore, riammaglia col segno. Queste integrazioni di interventi sulla materia non hanno né precisata e limitata attuazione, il tessuto cromatico l'artista infatti spazza o incide con la spatola creando nuove accidentalità sul volto della materia stesa, ridisegna alla sua mano aperta altri destini. Dicevo che il SUO fare comporta un gesto calligrafico, tanto è lento; ma il dipinto emancipato, suona spesso ancora aperto, vibra sovente di fresche e timbriche cromie come se quella sorta di archeologia degli strati si fosse capovolta in una operazione diretta, tipo quella magari di un Appel o di un Alechinsky. Ma perché Fabio Rocca ha scelto questo modo criptico e indiretto di figurare il suo espressionismo astratto? Viene dentro di lui, prima la obbedienza al metodo, quel preparare gli strati da "manomettere" e poi l'estro quasi affidato alla mano, al Caso, nel concetto antico della ispirazione? E perché fa come quel conversatore che non apre bocca, non comincia il suo dire, se non al terzo bicchiere? E' indispensabile quel metodo aggiuntivo, tra obbedienza, quasi, alle leggi della bottega, e trasgressione alle stesure di cavalletto? Quale mito, obbligo, super ego scattano nel profondo di questo artista onestissimo e privo di qualunque snobismo di atelier, per continuare a far fiorire la pittura dall'archeologia, da lui stesso fabbricata? Appena sì contemplano le opere e si posa poi lo sguardo su di lui, quel viso serio e al tempo inerme, severo, chiuso, ma umano, ci dà maggiore fiducia. Molti suoi quadri, anche di dimensione grande (anzi io sono convinto che la misura media delle opere di Fabio Rocca dovrebbe essere maggiore, perché miniaturizzando l'immagine col suo metodo, compie opera più manuale che mentale, il materico scatta con minor forza nel lirico, si distanzia come guardando in un binocolo capovolto), assumono un piglio informale franco e suggestivo, non domandiamo più a loro come sono fatti, ma quello che dicono, così si presentano sulla tela o sulla carta. Come per esempio davanti a quel bellissimo lavoro che pare configurare in una mappa della Genesi una rete di fiumi e che porta - titolo "Jetz bin ich im Bilde!" eseguito nel 1985/6, cm. 110x140. Qui se pure l'artista potrà dimostrarmi che quelle scaturigini azzurre hanno vitalità, come di acque, appunto, sorgive, che vengono da sotto, cioè dallo strato che l'artista ha lasciato dopo il suo scavo con la spatola, io vedo e non posso vedere il quadro che come un'opera raggiunta direttamente tutta col mettere, gesto immediato di valido espressionista, (il quale, fra l'altro non è astratto del tutto). Ma non perché il dipinto suggerisca più degli altri, polivalenti, una idea maggiormente precisa della natura (del resto molti lavori di Fabio Rocca possono essere definiti dei paesaggi) ma perché le notazioni pittoriche hanno altra forza. Come anche nello splendido altro lavoro del 1987, cm 100x150 dove in una superficie marmata di cielo serpeggiano lettere e consonanti vertebrate nell'iride; cosa davvero singolare, oltre che altamente qualificata, che mi fa venire in mente le esultanti "primavere" della pittrice Mitchel, nord americana. Ma qui, naturalmente, la pittura del siculo napoletano è assai più composta, più scritta in uno spazio non viscerale. Certo non v'è opera di artista astratto, perfino se obbligato a geometrie di Gestalt, che poco o tanto non abbia da accogliere la natura, il sensibile; (è arcinota, come pezza d'appoggio a questo discorso la sequenza dell'albero di Mondrian) e quindi anche Fabio Rocca soggiace, e nemmeno con riluttanza, a questa legge. La grande diversità delle "figure", dei "quanti" scavati e ripetuti, dei segni capillari, zampillanti su superfici come di cera, texture, si direbbe, di ali, aquiloni, vele, cime di !lutti in mare aperto, reiterazioni e diversità, fanno già il pittore. Ma appena l'artista parte fin dal principio con qualcosa di determinato, che non trova a mano inano che scava, ma ha dentro, appunto io fin dal principio, come per esempio la serie eccezionale dei planisferi, allora, a mio avviso, la pittura ha un maggiore potere di convincimento. Ho ammirato una cartella intera di questi doppi mondi: una tale varietà, da farmi credere che il nostro vecchio pianeta abbia centinaia di fratelli disposti ad imitarlo, anzi che la terra sia come una goccia d'acqua per tante altre. Segno e materia, cromia e graffito, tono e ritmo, policromia, monocromia, schema di ideogramma, globo quasi scultoreo bloccato dalla luce dentro un buio siderale, forma semicancellata, affondata in una verdissima atmosfera, ciascun planisfero è una diversa scheggia di fantasia, quello che resta di un sogno differente da un altro sogno, fatto in una notte diversa, al comun denominatore dello stupore di esistere al mondo. Credo proprio che l'artista stia sul punto di esprimerlo questo stupore non più con gli strati da manomettere su una tavola che appoggia sulle ginocchia, ma dopo aver guardato il cielo con lo slancio di cui è capace. Ciò non significa proprio che debba cambiar pittura, né metodo, alla fin fine; ma forse saper meglio che cosa c'è dietro questa sua scelta antica, questa sua un po' accidiata manipolazione: forse potrà vedere allora la pittura non più come fuga, rifugio, soliloquio, ma come il mezzo del suo appassionato colloquio, già cominciato con tanto impegno in questa sua prima fase prestigiosa.


TESTO CRITICO #3
(Ugo Piscopo, xxxx)

"La casa dove abito, la mia vita, quello che scrivo: non sogno altro che tutto appaia da lontano, come appaiono da vicino i cristalli di salgemma". Sembrerebbe una dichiarazione di Valéry o di un discelpolo di Mallarmé invece è una proposizione centrale proprio di Breton, l'implacabile defensor fidei del Surrealismo. Anche in lui, come in ogni operatore estetico, risiede una struttura arcaica dell'homo faber, che sul prodotto vuole lasciare un marchio di oggettualità. In più, però, il codice linguistico registra come un carattere definitivamente acquisito l'esigenza di una disciplina cartesiana, che tutto scandisce e misura su ascisse e ordinate. Però, il reticolo geometrico, però, non è a due dimensioni: esso postula rapporti e riscontri di profondità, entro pareti di trasparenza, come il campione di una città laboratorio che esca dalle officine di murano. E ad una realtà del genere, Breton stesso accenna in Nadja: "Quanto a me continuerò ad abitare la mia casa di vetro, dove si può vedere a qualsiasi ora chi mi viene a trovare, dove tutto ciò che sta appeso al soffitto e alle pareti regge come per incanto, dove di notte riposo sul letto di vetro, dove chi sono mi apparirà presto o tardi inciso a punta di diamante". Ognuno ha il suo rifugio: tra le sue atmosfere di cristallo, Breton calcola di poter catturare la rivelazione, di trovare finalmente lo specchio per potersi guardare in faccia, senza spavento, senza compiacimenti, nell'oggetto reale in cui consiste. E come Breton, ognuno trama, consapevolmente reti per esedurre il caso e imprigionare l'appuntamento. In fondo, siamo tutti operosamente araceidei. Fabio Rocca, ad esempio, che esce per la prima volta allo scoperto e che lo scrivente ha il piacere di portare alla fonte, ha visto una volta, tanto tempo fa, ma adesso la memoria non è del tutto sicura, serici veli di Iride stendersi nei cieli dell'Oriente all'alba. Ma ha visto, anche, questo lo ricorda meglio, faiti caldi e densi di riverberi avvolgersi sulle pareti delle botteghe, stagnare a gocce, formare paesaggi sulle cupree caldaie dei fenici, impegnati a tingere di porpora tappeti e coperte. Anzi, più esattamente, egli può testimoniare di essere stato anche fasciato in morbidi avvolgimenti di porpora, dove l'occhio ha selvaggiamente pascolato spettecoli di velluto, accensioni di barbagli marini, quelli che si rinfrancano sotto alla pelle dell'acqua. Di scogli e acque profondi, infatti, parlano le etimologie della porpora. In fondo al mare, oltre tutto, si celebrano nozze e riti stupendi, come quello di Teti, o almeno si svolgevano, quando il mare esisteva e non era un nauseante zabaione, dove i capodogli ingollano e insaccano nello stomaco osceni sacchi di plastica, che danzano e mimano sinuosità di polipi, di astri, di meduse. Da queste repellenti verifiche si tiene lontano Fabio Rocca, per prendere appunti preziosi di quello che ha visto: ruscelli di azzurro dilagare tra gli scogi abbacinati del rosso, trombe di giglio squillare guizzi di levrieri sui prati.