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3 Dicembre 2022 Redazione A&S 942
La biologia dell'inorganico
Biologia è la scienza che studia la vita; inorganico è ciò che non ha capacità vitale. In linea teorica tutto chiaro, secoli di pensiero hanno rafforzato la dicotomia tra quanto respira (umano, animale, vegetale) e quanto non risponde ai requisiti biologici. Oggi, però, queste due parole abilitano un evidente cortocircuito: perché l’attuale dimensione del progresso, l’evoluzione nanotecnologica, il gigantismo universale del web e le trasformazioni socioculturali stanno disegnando una società sempre più “scientifica”, dove gli oggetti soffiano aliti vitali, dove le macchine ragionano, dove l’intervento umano clona droni con una loro biologia interna. Ogni cosa va sempre riportata al fattore umano, certo, ma ormai la clonazione di hardware/software infonde ai macchinari un’autonomia ieri impensabile, dotandoli di un ciclo vitale dai caratteri organici. Cresce una nuova biologia dell’inorganico, un pensiero postdigitale che non si ferma alla freddezza elettronica e intuisce il margine biodinamico della macchina contemporanea. Avevano ragione James G. Ballard, Philip K. Dick e Kurt Vonnegut quando immaginavano battaglie tra uomini e robot, ribellioni metalliche e nature artificiali. Le loro veggenze letterarie sono l’archetipo radicale con cui soppesare la realtà attorno a noi, in bilico tra differenze e somiglianze, con una fantasia romanzesca che talvolta ha ingigantito, altre volte sottovalutato le derive del progresso instabile. Mi viene in mente Andrew Niccol (Gattaca, Simone, Timeless), autore di un cinema dove uomo e macchina si fondono con ibridazioni invisibili, spostando gli umani sulla soglia robotica e gli spazi abitabili sulle geometrie a misura di comunità. Gli esterni di Gattaca sono un giusto raccordo verso il mondo fotografico di Carlo D’Orta. Un richiamo senza didascalismi formali, più legato al processo organico del post-razionalismo: come se geometrie, angoli retti, linee e modularità respirassero un ossigeno autogenerato, frutto di una circolazione periferica che esprime un valore biologico nella chimica degli elementi architettonici. Carlo D’Orta è un “biologo” del paesaggio contemporaneo, un ricercatore sottocutaneo che scava sotto il primo strato dell’apparenza urbana, dove le strutture diventano sinapsi architettoniche, dove i macroelementi richiamano il micromondo cellulare. Il suo occhio ragiona con un principio scientifico e un’attitudine pittorica, secondo equilibri complessi mai automatici, sul filo di una razionalità che interpreta i codici del reale, scovando l’ambiguità praticabile tra figurazione e astrattismi. Principio scientifico, ovvero, analisi degli elementi.
Attitudine pittorica, ovvero, qualità e tensione del racconto fotografico. La maturità del digitale sta riscrivendo la filiera che unisce l’inquadratura alla diffusione finale dell’immagine, passando per usi e contaminazioni che hanno reso la Fotografia il più complesso, paradossale e controverso dei linguaggi attuali. I nuovi mezzi hanno ridotto la distanza tra utente generico e qualità esecutiva, così come la velocità del digitale ha mitigato l’aura del rullino coi suoi tempi di sviluppo e stampa. Al contempo, la facilità d’uso sta evidenziando il valore della resistenza iconografica, un’ideale zona per eccellenze visuali, abitata dai fotografi che alla competenza tecnica uniscono la sapienza dello sguardo, oltre ad una conoscenza sensibile per tecniche di stampa, carte e strumenti con radici meccaniche. D’Orta mi piace immaginarlo in questa riserva figurativa per anime speciali, nel pianeta dei fotopittori più raffinati ma anche più curiosi, privi di chiusure e preconcetti, nipoti della meccanica e figli del digitale, con un occhio nella memoria e un occhio nella ricerca. Si scorge una felice corrispondenza tra la biologia del paesaggio e la biologia del linguaggio fotografico. Due momenti che D’Orta incastra in maniera empatica: da un lato la selezione di architetture specifiche, scelte per quel loro carattere biodinamico, per la vertigine cromatica che le completa, per il cuore pittorico che le anima; da un altro la ricerca di nuovi sviluppi fotografici, organica rispetto alla filologia del mezzo, generatrice di richiami e combinazioni, con passato e futuro su una direttrice che addiziona senza annullare. Il suo recente lavoro (RE)FINEART, per esempio, modifica la realtà industriale con un’interpretazione dal cuore pittorico, cambiando minimi dettagli, contrastando con liturgia poetica, riperimetrando singoli frangenti. Lo spunto sono i luoghi dell’industria pesante (petrolio, chimica, acciaio), plasmati da una funzionalità estetica che ha agito sul nostro immaginario e sulla vita del terziario postindustriale. D’Orta è partito da qui e ha scelto una raffineria petrolifera in Austria, diventandone interprete visivo senza moralismi, senza piglio da reporter ma con approccio “impressionista”, così da reinventare il realismo, ridefinendolo, appunto, con spostamenti minimi ma indicativi. Il cardine è sempre nel dettaglio autonomo, nella capacità di isolare frammenti industriali e renderli un campo iconografico, una matrice estetica che ragiona con piglio metafisico e assolutezza semantica. La città contemporanea deve molto al contributo visionario di pittori e fotografi che captano l’anima segreta del mezzo, modellando profili visuali che ampliano lo sguardo sul presente. Se però il quadro pittorico sembra spingere verso l’interno, la stampa fotografica offre la sensazione di un corpo che chiede spazio verso l’esterno. Da qualche tempo ci si domandava cosa fare dell’implicita richiesta di una tridimensionalità fotografica: qualcuno (Antonello & Montesi) ha ideato un software per sviluppare tecniche di scatto in 3D, così da stampare immagini che attraverso speciali occhialetti si trasformano in corpi mobili; Carlo D’Orta ha invece agito sulla natura primaria della foto, creando un doppio scultoreo che scompone e ricompone la stampa. La sua idea è una perfetta equazione: i volumi netti si frammentano per sdoppiamento tramite lastre sagomate, così da smontare la foto in un processo installativo dalle molteplici soluzioni. Una sorta di chiusura del cerchio teorico davanti al cortocircuito del reale, un passaggio che apre verso margini ambiziosi e ricchi di sorprese. Gianluca Marziani, Direttore del Museo di Arte Contemporanea-Palazzo Collicola di Spoleto (Perugia)
(Tratto da "La biologia dell'inorganico" su Domus)
Tra le linee, realtà parallele
Geometria, linea, intersezione. Entrare nello studio di Carlo D’Orta è un tuffo nel pragmatismo, il suo rapporto quasi matematico con l’obiettivo della macchina fotografica è alla base della sua poetica così in linea con l’astrattismo geometrico a cui tanto si è ispirato. Ed è alla base anche dei suoi successi recenti: dall’ingresso nel fondo Malerba per la fotografia alla conferma della partecipazione al Festival di Orbetello 2018, dalle mostre in giro per il mondo fino alle acquisizioni pubbliche delle sue opere, come quelle da parte della Banca d’Italia e del Palazzo di Giustizia di Milano. Il suo occhio in questi anni si è concentrato sulla delicata e ambiziosa sfida di sintetizzare, nella fotografia, il linguaggio pittorico e la razionalità dell’architettura. Nella serie Biocities, una ricerca in continua evoluzione che accompagna da anni il pensiero dell’artista, il calcolo, infatti, incontra l’estetica, il tempo incontra lo spazio e la struttura diventa il momento di massima espressione della creatività. Questo ”teorema” è stato declinato nel tempo e in molti contesti urbani in giro per il mondo, da Roma a Berlino, da Londra a Shanghai, da New York a Singapore. Sempre alla ricerca di architetture e geometrie da intersecare, fino a trovare l’attimo e il punto in cui le forme si rigenerano trasformandosi in entità nuove. Con queste prospettive D’Orta rivela delle realtà parallele, che solo l’occhio dell’artista riesce a mostrare, dimostrando come nella vita i problemi possano cambiare aspetto in base al punto di osservazione. «È esattamente il fulcro del mio lavoro. Un lavoro emotivamente molto impegnativo – racconta – una questione di centimetri al continuo inseguimento delle coordinate giuste in cui l’esistente si mostra con un altro volto. E la realtà mostra la sua dimensione parallela». Stilisticamente le sue fotografie sono uno studio sul concetto di forma, in cui tanti elementi catturati dall’obiettivo in particolari scorci urbani vengono come riassemblati, ma non manualmente, bensì proprio attraverso lo scatto fotografico, grazie alla ricerca di particolari prospettive e punti di osservazione, rispettando quindi la loro naturale collocazione. Si vengono a creare, così, degli autentici quadri astratti, con diversi livelli cromatici e in cui l’unico leitmotiv è rappresentato dalle linee, sempre così nette e precise, utili a dare il senso della profondità e, in generale, quel fascino così pragmatico all’insieme. Non a caso D’Orta ha trovato pane per i suoi denti nel quartiere romano dell’Eur, dove il trionfo delle linee ha scandito uno dei manifesti urbani più suggestivi del razionalismo, tradotto in chiave “neoclassica” dal celebre architetto Marcello Piacentini. L’intero quartiere, il cui progetto fu varato nel 1938, rappresenta un’opera architettonica di assoluto valore. Ebbene quest’area è stata una delle più attenzionate e studiate dall’artista, che ne ha fatto lo scenario di alcune delle sue più interessanti fotografie della serie Biocities. «Sono sempre stato molto attratto dal sistema prospettico che si sviluppa nel quartiere Eur – spiega D’Orta – un gioco di linee e angoli che mi ha permesso di sviluppare dei dialoghi fotografici molto suggestivi. Tra quelle vie e quei palazzi ho ritrovato lo stesso concept della tavola rinascimentale la Città ideale». Non a caso le sue fotografie saranno utilizzate da Inail ed Eur spa per realizzare una prestigiosa pubblicazione e una grande mostra nel 2018, per celebrare gli 80 anni dalla fondazione del quartiere. Già ad aprile 2017 i suoi scatti sull’Eur sono stati esposti: la galleria Honos Art di Roma ha ospitato la mostra Eur 42/oggi. Visioni differenti. Negli anni precedenti le sue fotografie della serie Biocities hanno viaggiato in giro per l’Italia e all’estero in varie mostre, le principali delle quali sono senza dubbio Beyond the lens, a Venezia, nel 2015, all’Officina delle zattere, curata da Italo Bergantini e Gaia Conti e rientrata come evento collaterale nella Biennale di Venezia, e quella a Rovereto dal titolo Biocities, nel 2016, alla galleria PoliArt, curata da Leonardo Conti. Un lungo percorso espositivo iniziato qualche anno prima, nel 2013, a Palazzo Collicola di Spoleto, dove Biocities era stata introdotta, all’interno della mostra curata da Gianluca Marziani in collaborazione con Italo Bergantini. «Biocities continuerà a svilupparsi – conclude l’artista – ne sto studiando le possibili evoluzioni. Nel 2018 il lavoro sarà concentrato sulla storicizzazione di quanto realizzato fino ad ora. Ma poi vorrei continuare la ricerca, probabilmente esplorando nuove mete in cui riproporre le mie intersezioni».
(Tratto da "Tra le linee, realtà parallele" su Insideart)