Intervista all'architetto ed artista Franco Lista (articolo + foto)

31 Marzo 2021 Redazione A&S 7119

NELLA FOTO: FRANCO LISTA ACCANTO AD UNA SUA OPERA.

Artista e architetto, Franco Lista nasce a Napoli nel 1938 ed opera da anni tra la città di Napoli e l'isola di Procida; ispettore per l’Istruzione artistica del M.P.I, MIUR, commendatore della Repubblica, docente universitario con contratto annuale (Unisob), ricercatore confermato, cultore della materia degli insegnamenti di Estetica e di Educazione all’immagine (Unina), membro del Consiglio nazionale del Ministero per i Beni culturali e ambientali, autore di scritti di arte, architettura, pedagogia e didattica dell’arte. Nel 1964 vince il secondo premio dell’Istituto nazionale di architettura (InArch), e nel 1973 inizia la sua esperienza espositiva alla Bienal de Arquitetura a San Paolo do Brasil e, sempre nello stesso anno, partecipa alla XV Triennale di Milano. Tra le sue ultime esposizioni, ricordiamo: “Vesuvius” (Napoli, 2005); “Le porte di Tiberio” (Capri, 2006); “Segni per Libri” (Civitanova Marche, 2009); XLII Rassegna d’Arte "Premio Sulmona 2015"; "Che dici Totò? Il De Curtis dialoga con gli artisti" (Castel dell’Ovo, Napoli, 2017); “Terra” (Il Ramo d’Oro, Napoli 2018); “Novecento Oltre” (Saletta Rossa, Napoli 2010-2013); “Il senso del sacro” (Castel Nuovo di Napoli, 2018-2020).


INTERVISTA A FRANCO LISTA
a cura del sociologo e critico Maurizio Vitiello


Puoi raccontare i desideri iniziali di vita?

Il desiderio di libertà; soddisfatto soprattutto nel gioco e nel disegno. Attività queste, più di ogni altra cosa, alla base dell’educazione e della formazione della personalità creativa. Questa condizione di gioco, di capacità via via crescente in età adulta, di giocare con elementi, cose, idee, concetti è forse la mia vera formazione in senso creativo.

Quali i sentieri che avevi intenzione di seguire hai, effettivamente, percorso?

L’intenzione di sperimentare e verificare l’unità e la diversità delle arti spazio-visive, sia dal punto di vista teorico, sia da quello delle attività concretamente operative.

Ci parli dei tuoi contatti con l’Università e i livelli raggiunti?

L’Università è un luogo di ricerca e di formazione, dove la complessità delle attività scientifiche, artistiche, creative, organizzative è tale da rendere l’Istituzione una fondamentale, indispensabile, articolazione della società civile. Il COVID ha dato ampia dimostrazione di questa necessità! La “complessità” attiene e condiziona anche la qualità della sua struttura e delle sue risorse umane, dei suoi cervelli. Ricordo, a proposito di qualche brutta piega presa da alcuni atenei, cosa scrisse con fine ironia Raffaele Simone, professore ordinario di Linguistica generale: “Nel terreno di coltura preparato dalla classe politica i professori si sono acclimatati, hanno prosperato e cominciano a riprodursi.” Personalmente, ho volontariamente lasciato la posizione di Ricercatore confermato alla Federico II, per assumere quella ispettiva dell’Istruzione artistica nel MIUR, ritornando a insegnare, più tardi, nell’ambito universitario, libero questa volta, da legacci e dipendenze di varia natura che, purtroppo, segnano la vita di queste istituzioni.

Quando è iniziata la tua voglia di “produrre architettura”?

Si è manifestata progressivamente in rapporto allo sviluppo dell’intelligenza spaziale, per adoperare i termini di Howard Gardner. La “poétique de l’espace” (Gaston Bachelard) parte dalla necessità poetica di trovare e costruire, anche con i cartoni dell’imballaggio di un elettrodomestico arrivato a casa, un proprio, personale “guscio entro cui riparare e ritrovarsi”. La casettina, il rifugio infantile sono i primi, iniziali segni dell’uomo-architetto.

Quando è iniziata la tua voglia di “produrre arte”?

Molto precocemente, il disegno e la pittura erano i miei “giochi” preferiti. Pasticciare, macchiare, scarabocchiare è un gioco prepittorico, iniziale del percorso artistico, che va incoraggiato, mai represso come purtroppo spesso accade. Non è un caso che un artista del calibro di Giovan Battista Piranesi scrivesse: “Col sporcar si trova”, dicendo “tutto” sulla pittura, in una fulminante locuzione. L’artista deve operare sul Kaos assumendolo come materia su cui operare e configurare il proprio soggettivo Kosmos. Su queste premesse si è sviluppato il mio percorso formativo, il mio impegno di architetto, artista, docente nei vari segmenti formativi (dal liceo all’università) e di ispettore ministeriale per l’Istruzione artistica.

Mi puoi indicare gli artisti bravi che hai conosciuto e con cui hai operato, eventualmente “a due mani”?

Ho conosciuto figure importanti per la mia formazione; pittori come Francesco Galante e Eugenio Viti, Enzo Frascione come incisore. Giuseppe Antonello Leone, Luigi Castellano (Luca), Franco Mazzucchelli, Nino Caruso, e altri con cui ho operato più o meno strettamente.

Quali sono le tue personali da ricordare, e perché?

Diverse, a Procida con acquerelli del suo paesaggio e altre, ad Aversa alla Galleria Klimt, al Museo del lupo a Civitella Alfedena, al Ramo d’Oro a Napoli... La mia pigrizia organizzativa mi fa rivolgere, maggiormente, alla partecipazione a mostre collettive, di più facile logistica.

Puoi precisare i temi e i motivi delle tue ultime partecipazioni a collettive e rassegne?

La partecipazione alla Pittura di Storia di Giuseppe Gatt allestita a Palazzo Farnese a Caprarola, alla “Prop Art” [ndr: Propganda Arte] di Luca (Luigi Castellano), alle manifestazioni come “Il fascino della carta” di Rosanna Chiessi a Cavriago e Reggio Emilia, o ancora a quelle più recenti su Totò a Castel dell’Ovo e al “Senso del sacro” a San Domenico Maggiore e alla Cappella Palatina di Castel Nuovo, per fare solo qualche riferimento. Queste collettive hanno rappresentato momenti di confronto, di arricchimento reciproco con gli altri partecipanti. Particolarmente, la complessità del tema del Sacro appare interessante perché non si presta mai a una conclusione; è un divenire, come lo è l’atto creativo della pittura che già contiene in sé qualcosa di sacro. Il sottotitolo della quarta edizione di questa rassegna "L’infinito nel frammento" sollecita una approfondita meditazione, sfuggendo dal narcisismo intimistico e soggettivo nel quale generalmente si rifugia l’artista. L’arte, la bellezza, per Schelling, erano l’infinito esposto in modo finito!

Dentro c’è la tua percezione del mondo, forse, ma quanto e perché?

Assistiamo a una generale fase della produzione artistica che potremmo definire di babelica eteroglossia: una confusione sia dal punto di vista linguistico che dei contenuti. Questo è facile percepirlo riguardando l’attuale produzione artistica, e le sue molteplici linee di ricerca, sia come “trasposizione sul piano artistico di una patologia religiosa, sociale e psicologica” (Perniola), sia quale smaterializzazione dell’arte e la sua dilagante e preponderante ricostituzione in forma concettualizzata. Altro che la bella e semplice esclamazione di Mirò: “Mi lascio sempre guidare dalla materia!” Oggi, gran parte degli artisti, sono dentro il paradosso della loro in/attività. Una contraddizione bene espressa da Beuys: “Non ho nulla a che fare con l’arte, e questa è l’unica possibilità per poter fare qualcosa per l’arte.” Nella mia percezione del mondo, nella Weltanschauung di altri artisti che stimo, è, in qualche modo, “ospitata” la mia pittura, sostenuta da un mio modo di vedere la condizione della contemporaneità. Consapevolmente e reattivamente! Ciò nasce dal fatto di considerare l’arte, da una parte, una componente insopprimibile dell’uomo creativo e, dall’altra, un marcato, dilagante modo d’intendere oggi l’arte: cioè, qualsiasi cosa può essere opera d’arte per l’affermazione populistica secondo la quale l’arte può essere fatta da tutti. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi quando vediamo l’horror pleni (Dorfles), reso dalla marea montante di “opere”, performance, installazioni, sommamente illeggibili, oscure, stereotipate, conformistiche. Che fare, mi chiedo? Credo che occorra assolutamente una stasi meditativa da parte degli artisti, dei critici, dei curatori, dei filosofi dell’arte, né più né meno, come il sovescio in agricoltura che rende fertile il terreno dopo un periodo di riposo.

L’Italia è sorgiva per gli artisti dei vari segmenti? La Campania, la Puglia, il Sud, la “vetrina ombelicale” milanese cosa offrono adesso?

Se è sorgiva, sarà sicuramente di tipo carsico! Perché come la fonte appartiene a uno ecosistema, così l’arte deve, purtroppo necessariamente, appartenere a un “sistema dell’arte”. Ed è questo il punctum dolens, sul quale mi pare che non occorra nessun commento, nessun fattore di chiarificazione, per l’evidenza dei fatti. Una gestione dell’arte contemporanea, al di fuori degli schemi consumistici di quella parte di collezionisti e fruitori che considerano l’arte solo come investimento finanziario, non riesco ancora a vederla, mentre per converso assistiamo, un po’ tutti, a un vero e proprio fenomeno di espropriazione artistica e culturale del quale dobbiamo prendere coscienza.

Quali piste di maestri hai seguito?

I miei registri espressivi sono sostanzialmente due e dialogano in pacifica, laboriosa coesistenza. Uno figurativo che esplico soprattutto con l’acquerello dal vero, ma pur sempre di figurazione metaforico-mimetica: sono i paesaggi dei luoghi elettivi, Procida, Civitella Alfedena, quelli che io considero i luoghi dell’anima, per adoperare una locuzione ormai abusata. L’altro consiste in acrilici di grande formato, da studio, con colori intensi e di argomenti di vena ironica, surreale o di pura astrazione. Naturalmente, i maestri che mi hanno influenzato sono diversi e rispondenti a questa mia inclinazione, perché la loro pittura incarna gli stessi miei orientamenti.

Quali architetti celebri e celebrati hai conosciuto? Hai lavorato con loro o per loro?

Marcello Sfogli, Nino Barillà, Alfredo Sbriziolo, Giulio De Luca, Roberto Pane, Carlo Cocchia, Marcello Canino, Eduardo Vittoria, Rosalba La Creta... sono stati architetti locali, del nostro territorio, non certo di cultura localistica. Con essi ho avuto, in varia misura, rapporti diretti, collaborativi e formativi. Ma non posso non citare anche alcuni artisti con cui ho operato. Artisti come Luca (Luigi Castellano), Bruno Munari, Giuseppe Antonello Leone, Diana Franco, Silvio Cattani, Franco Mazzucchelli, Nino Caruso, Maurizio De Joanna, Guido Sacerdoti, Nino Ruju. Li cito perché credo e m’impegno costantemente per l’unità tra le arti. Separazioni, tipizzazioni, chiusure specialistiche di generi artistici sono solo funzionali al gran mercato delle merci semiologiche.

Quali artisti e artiste hai conosciuto, e quando? Con chi hai realizzato mostre?

Ne cito solo qualcuno: Carlo Levi ed Ernesto Treccani conosciuti a Partinico, alla fine degli anni Sessanta, durante un programma di lavoro e di studio organizzato da Danilo Dolci a Partinico in Sicilia.

Pensi di avere una visibilità congrua?

Diversamente, penso – e in termini che ritengo positivi – ad una sorta di invisibilità. Cioè a una condizione che mi possa avvicinare, in modo più autentico, con immaginazione e responsabilità, alle arti visive e al di fuori dei processi di mercificazione.

Quanti “addetti ai lavori” ti seguono?

Dedico, ormai da molti anni, una parte del mio tempo all’insegnamento, certamente non accademico, dell’acquerello e delle altre tecniche pittoriche e grafiche, ad allievi che a una certa età hanno scoperto e perseguono una forte passione per l’arte. Cerco di liberarli dai soliti e comuni stereotipi che guidano conformisticamente i processi creativi. L’arte deve vivere di libertà espressiva, perché è la condizione che libera la creatività intesa come capacità di giocare, in senso schilleriano.

Quali linee operative pensi di tracciare nell’immediato futuro?

Dall’immediato futuro trapela un orizzonte dell’esperienza artistica a dir poco impressionante. Penso al cosiddetto Post Human che traccia nuovi campi futuribili dove l’arte, già innestata nelle nuove tecnologie, si connette con la biotecnologia, l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica. Si creano nuove e raccapriccianti sperimentazioni plastiche; sculture e modellati realizzati con carne prodotta artificialmente. Penso a Orlan, artista che va oltre la Body Art e inventa la Carnal Art, sostenuta dal principio che “l’avanguardia non è più nell’arte ma nella genetica”. Un giovane studioso, Eugenio Viola, ha approfondito queste direzioni di ricerca e, allora, alla luce di quel che accade mi appare profetica la riflessione che ebbe a fare Rainer Maria Rilke: “Il bello è semplicemente l’inizio del terribile che molti di noi appena sopportano.” Di fronte a questo orizzonte penso che l’arte dovrebbe seguire e mutuare le teorie di Latouche, operare cioé una sorta di “decrescita” felice, come nella vita così nell’arte. Non fosse altro perché le due cose s’identificano! Per conto mio, oggi, tento di perseguire l’arte come creazione quidditativa. Cerco la substantia delle cose. Il mondo fenomenico ha una sua ipostasi, ed è questa che va ricercata proprio per non scorrere come l’acqua sul marmo, senza poter entrare nella profondità delle cose.

Pensi che sia difficile riuscire a penetrare le frontiere dell’arte? Quanti, secondo te, riescono a saper “leggere” l’arte contemporanea e a districarsi tra le “mistificazioni” e le “provocazioni”?

La cosiddetta Artification (per come è stata analizzata da Heinich e Shapiro), da iniziale epifenomeno è dilagata nella sfera dell’arte contemporanea, per cui le più disparate attività umane, progressivamente, sono entrate, e continuano su questa strada, a far parte dell’Arte. Pensiamo che un tempo la distinzione, i confini tra campi della produzione espressiva era netta. Per fare un solo esempio, arte e arti applicate erano cose ben distinte anche in campo formativo, nei nuclei museali, nelle stesse figure professionali; da una parte operava l’artista, dall’altra, l’artigiano. Oggi qualsiasi lavoro, qualsivoglia materiale, artistico, artigianale, industriale, antropologico, poco importa che sia rinvenuto, prelevato o configurato appositamente, entra legittimamente nel dominio culturale e commerciale dell’arte. Perniola descrive chiaramente il fenomeno dell’artificazione: “Si tratta di una questione ontologica, un salto di frontiera discontinuo tra ciò che non è e ciò che è collettivamente identificato come arte.” Ne consegue la difficoltà interpretativa di gran parte delle attuali manifestazioni artistiche, l’incapacità di districarsi, come dici tu, di discriminare mistificazioni e separare l’insignificante, l’insulso dal valore e dalla capacità creativa. Questo spiega anche la debolezza dell’attività e della riflessione autenticamente critica e, per converso, il dilagare dell’attività curatoriale e organizzativa.

I “social” t’appoggiano, ne fai uso quotidiano o settimanale?

Un uso molto moderato che mi consente di tenere in vita rapporti e relazioni con amici e colleghi che vivono e lavorano in altre regioni. Specialmente, aggiungo, in questo particolare momento.

Con chi ti farebbe piacere collaborare tra critico, artista, art-promoter per metter su una mostra o una rassegna estesa di artisti collimanti con la tua ultima produzione?

Intanto, come in questo momento, collaboro con piacere con te!

Perché il pubblico dovrebbe ricordarsi dei tuoi impegni artistici?

Ricordi e memorie appartengono ai fruitori e dunque danno luogo a un ventaglio di giudizi, soggettività, tracce e tempi sempre diversi. Mi occupo e mi preoccupo invece del personale giudizio sul mio operato, sull’itinerario fin qui percorso sempre animato dal tentativo di rivedere, e in profondità, il già fatto. Avanzare, ancora spero, una prospettiva di senso del mio fare e intendere sia l’arte e l’architettura che la vita stessa.

Pensi che sia giusto avvicinare i giovani e presentare l’arte in ambito scolastico, accademico, universitario e con quali metodi educativi esemplari?

Mi poni un interrogativo di notevole peso specifico, un interrogativo problematico e ricorrente, specie sotto l’aspetto metodologico. Allora, più che una risposta secca mi pare opportuno qualche spunto di riflessione necessariamente sintetico. Che la sensibilizzazione, accompagnata da una non superficiale conoscenza dell’arte storica e contemporanea, sia indispensabile nel percorso educativo di base e sia ancora di più approfondita al liceo e all’università, mi pare un fatto acquisito e implicito addirittura a livello costituzionale. I nostri beni culturali, il nostro straordinario patrimonio storico-artistico richiedono una ampia partecipazione in tutte le azioni di tutela e valorizzazione di questo “baluardo identitario”, come qualche avvertito politico ebbe a definirlo. Credo che solo la conoscenza e la sensibilità ci possano aiutare a superare il dilagare di una subcultura visiva di basso profilo, populistica e triviale.

Prossime mosse, a Napoli, Procida, Londra, Parigi?

La pandemia in atto non consente di fare programmi di ampio respiro geografico, se non in modo virtuale. Per cui vale la pena di considerare spazi limitati, praticabili, a partire dal mio spazio domestico. Uno spazio accogliente dove lo studio, il lavoro, le esperienze trovano la loro dimora. Bachelard farebbe riferimento allo spazio della “immensità intima”, il “guscio” entro cui riparare e ritrovarsi. Napoli e Procida sono luoghi di vita ideali per esercitare l’immaginazione e mettere in moto una dialettica pittorica del fuori e del dentro: dal paesaggio vissuto al paesaggio rappresentato.

A proposito di Procida, dove tu hai base stabile alla Chiajolella, prossima “Capitale Italiana della Cultura 2022”, dicci tutto. Tu che conosci il paesaggio, l’ambiente, la storia, i monumenti e le chiese di quest’isola flegrea, puoi parlarcene?

Avrei molto da dire in proposito essendo Procida un luogo scelto, elettivo, una geografia poetica che trova corrispondenza nella geografia dell’anima. Questa condizione di reciprocità diventa condizione di apparentamento con la natura e gli abitanti, fino a incarnare il senso del luogo. Il riconoscimento di Capitale della Cultura, il carico di progetti elaborati in proposito, spero che possano costituire forti stimoli e sollecitazioni per una nuova e reale cultura del territorio, nel riconfermare la singola e singolare identità all’isola. La qualità ambientale va tutelata con il rigore che questo bene richiede. Il paesaggio dell’isola, impregnato di storia antica e di tradizioni radicate e iterate nel tempo, non consente più ulteriori compromissioni; il magazzino delle memorie individuali e collettive dei procidani ne costituisce la vigile spia!

Hai progetti per e su Procida?

In passato ho dato, sotto vari aspetti, molti contributi a Procida. Ora, in questa fase della vita, vorrei che Procida diventasse per me il luogo dell’otium romano; uno straordinario posto al sole che favorisca una vita di riflessioni e di arte.

A conclusione di questa lunga intervista, che futuro prevedi nel post-COVID?

Bisogna, più che fare previsioni, assumere quello che per Ernst Bloch era il principio fondamentale della vita umana: la speranza!

Aspetta... ma tu hai prodotto durate il lockdown?

Questa chiusura forzata per alcuni aspetti è stata fruttuosa. Ho lavorato, insegnando in videoconferenza ed esercitando le mie prevalenti occupazioni. Pittura, lettura e scrittura non sono state semplici attività consolatorie, ma mutando il rapporto con gli altri, riducendo molto se non azzerando gli scambi diretti di persona, ho avuto modo di verificare quella famosa frase di Leonardo: “Se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo.” Ovvero, lo star bene con sé stesso che precede e migliora lo star bene con gli altri. E si sta bene con sé stessi a condizione che si realizzi la sentenza socratica del “conosci te stesso”.

Ti aspettavi una pandemia nella tua vita?

La vita è un mistero e come tale bisogna caricarci addosso anche il peso impenetrabile dell’imprevisto. Anche quello dell’angosciosa previsione di “cosa c’è dietro l’angolo”.

Abbiamo subito una “guerra pandemica”, vero?

Certo, con modalità diverse. L’atteggiamento deve essere quello di difesa e insieme di speranza!

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Ultimo aggiornamento: 31/03/2021, 05:26