CopertinaAlessandra Lama / BiografiaAlessandra Lama / Critica
2 Maggio 2022 Redazione A&S 781
Nella pittura della beneventana – ma da anni residente a Bari – Alessandra Lama permane la stessa energia espressionista viva fin dagli esordi e dai tempi della sua formazione accademica. L’artista dà prova di conoscere e di saper ben interpretare tutte le tangenze visive dell’astrattismo, dalle Compenetrazioni futuriste all’Action painting, dal Surrealismo astratto all’Informel gestuale di Hartung e di Wols. In molti dei suoi lavori, Lama realizza una sovrapposizione di larghe fasce cromatiche che, come segnalato da Marcello Venturoli in una presentazione del 1987, sembrano rivelare «certi morbidi risentimenti, quasi a imbrigliare o a catturare invisibili figure». Spesso queste figure diventano griglie che emergono dai vortici dello sfondo e ne bilanciano le violente spinte centrifughe. Gli intarsi di segni e linee che ne derivano sembrano «schivare l’alternativa tra pittorico e geometrico», in un procedimento assimilabile a quello segnalato da Clement Greenberg a proposito dei pittori post-painterly americani. Nelle opere dedicate a Italo Calvino, l’artista “alleggerisce” il supporto e compie una riflessione interna al mezzo espressivo. A Palazzo Tupputi, Lama appende le tele e i retini al di sotto di un doppio arco e, in virtù del dialogo che si crea tra gli accordi cromatici e la decorazione della sala, realizza una quinta spaziale al contempo visibile e invisibile. Il dipinto Zora e i collage che calano dalle volte disegnano topografie cifrate e cosmologiche e rappresentano quelle «ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma», di cui Marco Polo rende conto al Gran Khan.
(tratto dal catalogo "Léggere forme leggére. Il Gruppo REC a Palazzo Tupputi" (a cura di Edoardo Trisciuzzi), Mario Adda Editore 2016)
Focus
“Coprifuoco” è uno dei tanti concetti – più o meno inusuali, più o meno desueti – che, da un anno e mezzo a questa parte, hanno modificato le abitudini e il gergo quotidiano di ciascuno. Al di là delle troppo enfatiche corrispondenze stabilite tra la pandemia globale e i conflitti armati, è chiaro come l’obbligo di rispettare determinate regole abbia influenzato il nostro vivere individuale e sociale. Ora che il coprifuoco ha lasciato il campo alle velleità di rinascita, Focus celebra contestualmente il ritorno espositivo di Alessandra Lama e la riapertura – sebbene per ora solo fisica – dell’ex Forno Signorile, uno dei luoghi commerciali storicamente più noti del rione Madonnella. Due buoni motivi per constatare come la fiammella della spinta creativa e dello spirito di iniziativa non si sia mai estinta sotto la cenere del distanziamento. Lama torna a esibirsi in una mostra personale barese a distanza di sedici anni dall’ultima occasione. L’artista beneventana conserva inalterato il suo registro astratto-informale e, come già in passato, lo sottopone al vaglio di uno spazio dalla grande potenza volumetrica. Anche stavolta, l’esito è un’elezione reciproca, sottile ma sinergica, tra i dipinti e la massa muraria circostante. Il fuoco è l’elemento primario che ravviva la storia dello spazio e che, negli ultimi mesi, ha condotto le esplorazioni pittoriche di Lama. Le tessiture cromatiche evocano una natura incandescente e metamorfica, la stessa anima che si può rintracciare nella coda di una cometa o su una sciara vulcanica. Ma l’artista si tiene ben lungi da alludere a qualcosa di fisico e, attraverso violente linee forza, descrive un percorso spirituale di rigenerazione. Una sorta di percorso alchemico – o stregonesco, in ossequio alle sue origini – funzionale a depurarsi dalle scorie del disorientamento e del rimpianto. Com’è noto, il fuoco in quanto soggetto o strumento operativo ha contraddistinto le ricerche di tanti grandi del passato, su tutti Alberto Burri. Ma, più che all’Informale materico, è alla sua versione gestuale e all’Espressionismo astratto che guarda la pittura dinamica di Alessandra Lama. Non a caso, le fiamme avevano ispirato Jackson Pollock (The Flame, 1938) e Wols (Le feu, 1947), nel loro percorso di frammentazione all over e di dissoluzione tachiste. Tuttavia, è nel solco italiano, e più precisamente di Emilio Vedova, che va rintracciata questa recente parabola artistica di Lama. Infatti, il suo linguaggio sembra riecheggiare il grado più intimo della poetica dell’artista veneziano, secondo cui «vivere nella coscienza significa vivere nella tensione per toccare sprazzi, attimi di libertà». Al di là di qualsiasi costrizione che imponga il rientro a casa a una certa ora.
Altrimmagine (1987)
Dopo alcuni anni di fervido e segreto lavorio, Alessandra Lama esibisce gli esiti più recenti della sua lunga frequentazione della pittura. Una pittura che è per sua elezione essenzialmente saga del colore,il quale pur subendo delle continue metamorfosi, riesce tuttavia a non perdere mai il campo, a conservare anzi, intatto ed assoluto il suo primato. Il suo procedere per stesure successive, come a voler cambiare ogni volta – al sopraggiungere di nuove ed inalienabili pulsioni – lo stato delle cose,fa sì che la tela divenga vero e proprio palinsesto,cronaca sofferta quindi di una serie di incontri ravvicinati, di repentine affermazioni e di altrettante inaspettate obliterazioni, che si alternano alla ricerca spasmodica di una misura plausibile e soprattutto definitiva per l’espressione. Di quella notevole declinazione che in Italia l’informale ebbe nell’ "Ultimo naturalismo" arcangeliano, e segnatamente dall’emozionante ed morosa pittura di Morlotti (ma anche di Moreni e Mandelli), questa giovane artista raccoglie evidentemente l’ingombrante eredità, pur mirando con determinazione all’elaborazione di una maniera personale inedita, al di fuori di ogni compromesso citazionista e di ogni passiva ed arida rivisitazione.
Si riallaccia all’alveo del Vorticismo inglese la produzione di Alessandra Lama, in cui il ductus della pennellata si incasella docilmente nell’ordito costruttivista ben impaginato di uno spartito musicale. In Composizione Ritmica, assistiamo al movimento centripeto di un mosaico le cui tessere si assiepino compatte, lasciando intravedere la luce, come una polla di chiarore che dilaghi “smangiando” i contorni delle forme che assumono valenza informale. Stordente nell’effusione lirico-cromatica verde-azzurra, risulta Zona Quieta, in un’algida estensione, appena scaldata da tocchi dorati.
Al pari di Kandinsky, Alessandra Lama cerca di superare la concezione statica e museale di talune mostre, gallerie o recensioni, che tiene a distanza l’artista dal fruitore,lasciando inalterato lo status quo ante, l’eterogeneità tra chi crea e chi percepisce l’opera. Diversamente da Kandinsky, che optava per la seconda, Alessandra Lama cerca di conciliare le definizioni di Schumann e Tolstoj, circa le possibilità del pittore. Da un lato, l’obiettivo è quello di stabilire un afflato apatico con il visitatore della esposizione e con il lettore del catalogo, d’altro lato, l’artista non pone limiti alle proprie capacità espressive. Ogni cosa può essere rappresentata simbolicamente, allorquando è la materia stessa di cui è fatta ad essere colta e sublimata nell’atto creativo. Per Lama, l’immaginazione creativa, vagamente sciamanica,è in grado di immettersi nel magma fluidifico degli eventi non cagionati da una causa immediata e diretta, e generarne a sua volta, per un fenomeno libera associazione iconica. L’artista si immerge, alla maniera di Sant’Agostino di Ippona, nell’antro ove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose introdotte dalle percezioni. «Quando lavoro, il patrimonio imagopoietico mi scorre dinanzi come un fiume... non mi resta che attingervi energia alla bisogna.»
(tratto dal catalogo della mostra "Serendipità", 1998)