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9 Febbraio 2021 Redazione A&S 761
Neo-vorticista. Così a scambiare il mestiere del critico con quello dell'incasellatore, eventualmente anche attraverso l'uso di terminologie coniate per l'occasione, andrebbe definita la pittura di Alessandro Maio, e la classificazione non farebbe una grinza. Chi erano i "vorticisti"? Meglio ricordarlo a beneficio dei miei lettori, temo non pochi (si tratta del resto, di conoscenze già di tipo specialistico), che non lo sappiano. Erano i futuristi inglesi, fra i primi, insieme ai "raggisti" russi (Larinov, Goncarova, Malevic), a raccogliere in campo internazionale l'impetuoso vento di rinnovamento promosso dal movimento artistico di Marinetti e soci. Il termine identificativo del gruppo inglese viene dal poeta Ezra Pound, americano di nascita, ma londinese di formazione, che, leggendo Boccioni, individuò nel dinamismo emotivo del vortex l'archetipo più esemplificativo dell'ispirazione futurista. In realtà, malgrado le affermazioni contrarie di Windham Lewis, loro maggiore esponente, il vorticismo sembrò avvicinarsi alle geometrie rettilinee del cubismo, che regolarizza in senso cromatico e volumetrico, anticipando per certi versi il costruttivismo, piuttosto che ai caos multidirezionali del futurismo. Con lo scoppio della Grande Guerra, tutti al fronte, e addio al vorticismo: Lewis, salvandosi, si dedica soprattutto alla scrittura, mentre lo sculture francese Henry Gaudier, il messia selvaggio osannato dal cineasta Ken Russell, che credeva come Marinetti, al delirio dell'igiene dei popoli", cade in battaglia. Lascia, prima di morire, un resoconto dell'esperienza bellica in cui dice, fra l'altro: Con tutta la distruzione che si produce attorno, nulla è cambiato... La vita ha la stessa forza... E' dal vortice della volontà, della decisione, che si parte.
Se per gli esponenti storici del movimento, castrati inesorabilmente dalla guerra, il vortice era rimasto, più che altro, un riferimento ideale, da intendere come correlativo simbolico di una disposizione dell'animo, in Maio, vorticista cento anni dopo, chissà fino a che punto malgrado se stesso, assume il carattere che sarebbe dovuto essergli proprio fin dai tempi di Lewis e Gaudier: è cifra peculiare, costruttiva di insiemi che si manifestano secondo innumerevoli varianti compositive che cattura e concentra nella sua struttura arricciata, allo stesso modo chiusa e aperta rispetto al campo in cui agisce, la molteplicità delle forze dinamiche che l'attraversano, trovando in tal modo, anche la giusta relazione formale con la radice in cui tutto è partito, il Futurismo, l'originario, quello di Boccioni e Balla in special modo, ma anche quello della seconda stagione, se si pensa per esempio, a come certi "grappoli" di Maio possono ricordare analoghi espedienti di Umberto Mastroianni. Certo cento anni dal Futurismo e dal Vorticismo non sono passati invano, l'immaginario visivo di Maio ha avuto modo di nutrirsi anche di altre suggestioni avanguardistiche, non necessariamente in direzione parallela alle prime: soprattutto, direi, l'astrattismo di Kandinskij, fra le impressioni e le prime composizioni (in anni, quindi, coincidenti con quelli di Boccioni, Balla, Lewis, Gaudier), e in misura minore l'informale tachiste, Ma il lato più originale della pittura di Maio, dovessimo escludere i titoli delle opere, talvolta curiosamente imprevedibili (come quel Benedetto XVI la scelta, solenne ed enigmatico), sta in altro, l'associare la modularità vorticosa appena esposta, di indubbia natura astratta, ad un elemento architettonico dal marcato spessore tridimensionale (ora un pilastro, ora più ricorrentemente, lo strombo di un architrave o di un telaio di finestra), per quanto la sua trasparenza finisca per ridurre drasticamente qualunque possibilità di proposito realistico. Cosa sono quegli strombi, che funzione vogliono avere rispetto alle nubi di vortici retrostanti, che già sarebbero sembrati in grado di cavarsela per proprio conto, senza bisogno di altro ausilio? Probabilmente, a sentire le parole dirette dell'artista, vogliono rimarcare il processo alla base della creazione astratta, il superamento progressivo della dimensione materiale a vantaggio di quella spirituale, come se una porta aperta ci indicasse il passaggio obbligato da un punto a un altro. Davanti c'è ancora segno del terrestre, quando dietro, a dominare, c'è solo il cielo dell'immaginazione lirica. Sta a noi, se il viaggio proposto da Alessandro Maio ci alletta, spiccare il volo.
I suoi lavori partono dal cubismo, intrecciandosi poi con la metafisica ed il surrealismo. Ma questi lavori non sono altro che metafore per far riflettere sugli obbiettivi che l’arte ha sempre perseguito, con messaggi forti ed incisivi per mettere a nudo quelle questioni sociali che disorientano e rendono povera l’umanità del tempo in cui viviamo. Oggi viviamo di effimero, dice il Maio. E personalmente aggiungo che siamo in una società di plastica e di plastica non sono soltanto i contenitori ma anche i contenuti. L’arte è ormai colma di confezionatori di vuoto. Ci nutriamo di essa senza quindi approcciarci ad un valore sociale, lontano dall’obbiettivo che l’arte ha da sempre manifestato. Ben consapevole che ciò desterà scandalo presso i conformisti del nuovo che trovano ancora un futuro negli artisti nipotini di Duchamp, il cui cervello è spesso sviato da falsi e ridicoli valori, leggo nelle opere del Maio la volontà di altro approccio, quello di un risveglio culturale, di cui la Sicilia oggi ha immenso bisogno.
Joseph Beuys era molto convinto che, grazie all'Arte, potesse nascere una società migliore, a tal punto da dichiarare che era semplicemente impossibile per gli esseri umani portare la loro forza creativa nel mondo in qualunque altro modo che con l'azione.
L'arte è contemporanea, è l'inevitabile condimento di una vita, è la pillola amara e oggi più che mai stimola la nascita di un pensiero più consapevole perché sofferto. E quando mi chiedono come capire un’opera di arte contemporanea, rispondo con le parole di Bruno Munari: Il più grande ostacolo alla comprensione di un’opera d’arte è quello di voler capire.
Ciò giustifica la nullità nell’arte contemporanea di ostinarsi ad un figurativo accademico, che è ben lontano dagli stimoli riflessivi di crescita e di sviluppo dell’animo umano. Meglio quindi una buona fotografia! La capacità di un'opera deve coinvolgerci in un viaggio introspettivo ed indurci a riflessioni sull'esistenza individuale e sulla società contemporanea. Un’arte che stia dentro il sociale o accanto al sociale, perché essere dentro ed accanto è la condizione perenne dell'artista in tutte le epoche e in tutte le società. Trovo nei cicli del Maio una creatività per annunciarci nuove emozioni.
«La novità nella pittura non consiste principalmente nel soggetto non più veduto, ma nella sua buona, e nuova disposizione, ed espressione, e così il soggetto dall’essere comune, e vecchio diviene singolare, e nuovo» (G.P. Bellori, "L’Observations de Nicolas Poussin sur la peinture" in "Vie de Poussin", 1672).
Pur con le difficoltà del caso, la commissione critica è riuscita a portare al premio delle individualità di tutto rispetto. Gli artisti che ho invitato si muovono ovviamente nei vari campi dell’arte, dalla pittura iconica o aniconica e concettuale, per passare alla pittoscultura, alla ceramica, alle istallazioni, alla computer grafica. Opere concettuali sono quelle proposte da Alessandro Maio e Luca Viapiana. Alessandro vive e opera in Sicilia, una regione che soffre il dramma degli sbarchi. Il suo lavoro, “I fondali di Lampedusa”, è un’opera di denuncia: una tela bianca nella cui parte alta si intravede il viso scuro di un uomo dagli occhi che si illuminano e brillano come candele. Tutto intorno si stagliano delle scritte, incise sul plexiglas e che vengono proiettate in basso dalla luce che lo colpisce. La frase “Gli occhi si illuminarono come due candele e le lacrime erano come la cera che si scioglie”, scritta dai suoi cari descrive un viaggio a volte senza ritorno, che resterà per sempre su un fondale straniero.
(tratto dal catalogo XLVII Premio Sumona “Per Gaetano Pallozzi”, Sulomona 2020)