Flavia Mannucci / Critica

30 Gennaio 2023 Redazione A&S 213

NELLA FOTO: MANNUCCI CRITICA.

TESTO CRITICO #1
(di Nerio Rosa)

Uno svolgimento epocale
Con l’avvento del Postmoderno, intorno al 1970, la pittura ha subito un notevole mutamento di risultati operativi e formativi. Ad esempio, la libertà di modi postinformali non necessitava di basi accademiche o di lunghi tirocini scolastici. Non era più necessario quindi seguire in questi ultimi decenni itinerari artistici programmati. Infatti non sono oggi pochi coloro che, pur avendo scelto altro ordine di studi o altro svolgimento di attività, iniziano a lavorare in campo artistico non da giovanissimi. Naturalmente, è necessaria una guida consapevole degli aspetti salienti di una attività contemporanea e dei caratteri di un linguaggio pittorico non più legato a rappresentazioni o costruzioni di immagini convenzionali. La nuova didattica non accademica doveva avere lo scopo di individuare le qualità artistiche degli allievi, doveva quindi basarsi sulla realizzazione materica di superfici, facendo scaturire eventuali immagini non da costruzioni preordinate ma da emergenze fenomeniche. Per ciò che riguarda il colore si doveva dare alle opere una vivacità cromatica nuova, basata sulla ricchezza delle superfici. Anche la gestualità del segno doveva sostituire graficamente il disegno tradizionale, non più legato alla contemporaneità dei linguaggi. La sintesi espressiva poteva così testimoniare le qualità individuali senza schemi preconcetti. Queste riflessioni non potrebbero però presentare, in Abruzzo, un aspetto concreto se non ci fossero, anche da noi, validi esempi di una didattica nuova ed epocale. Importante in tal senso è il lavoro di Gianni Massacesi, che a Silvi da circa 20 anni lavora per dare ai suoi allievi un linguaggio pittorico aggiornato. I frutti non hanno tardato a venire, perché mostre di giovani artiste, non giovanissime ma vivaci nel cogliere i dettami di una nuova espressività, hanno presentato positivi risultati, ottenendo notevoli consensi sia in esposizioni personali che in mostre collettive. Gianni Massacesi può essere fiero di quest’opera di rinnovamento del linguaggio pittorico in Abruzzo, con il grande merito di aver saputo dare indicazioni iniziali utilissime, lasciando poi liberi gli allievi di trovare un proprio personale orientamento. Il motivo di un certo ritardo di Flavia Mannucci nel presentare una sua prima mostra personale sta appunto nel suo desiderio di documentare, aldilà di una padronanza linguistica di modi contemporanei, i caratteri di una visione autonoma che testimoniasse una individualità tutta propria, legata al suo modo di essere e di sentire. La prima difficoltà della nostra artista, nel desiderio di personalizzare il suo lavoro, stava nella necessità di partire da un’immagine consolidata, evitando ogni ricorso a costruzioni convenzionali o a descrizioni analitiche. L’opera d’arte non è rappresentazione di qualcosa; è qualcosa essa stessa. Tuttavia, e indipendentemente da richiami categoriali, cercare la concretezza di un proprio mondo come testimonianza di un vissuto non era cosa facile nel nuovo indirizzo espressivo prescelto. Una superficie di grande ricchezza cromatica avrebbe dovuto far riemergere un mondo dalle reminiscenze spaziali e figurative; e questo il pur positivo orientamento didattico di base poteva solo favorirlo. A questo punto è emerso tutto il valore artistico di Flavia Mannucci; che ha saputo operare scelte importanti ed epocali senza consapevolezze intellettualistiche, ma con un grande entusiasmo operativo ed un intuito sorprendente. Va notato innanzitutto il ricorso al citazionismo postmoderno e alle antinomie neobarocche, che hanno consentito di operare nel segno del recupero della memoria e non del richiamo storico del passato. I lavori prodotti negli ultimi quattro anni evidenziano il carattere intimistico di una visione sintetica ricca di colore-materia e di contenuti di grande rilevanza.
Un impegno autonomo e coerente
Tre sono gli argomenti espressi dall’artista nel definire i rapporti della sua visione intima: l’ambiente, le figure ravvicinate e una personale interpretazione della “natura morta”. Va chiarito subito che tali argomenti non virano mai verso un momento descrittivo, al quale rifarsi per connotazioni contenutistiche: la superficie pittorica ha sempre il sopravvento e non induce mai in compiacimenti frammentari. La sintesi, in tutte le opere di Flavia, è sempre un riferimento conclusivo e assoluto. Ho parlato di ambiente e non di spazio aereo perché la prospettiva intuitiva dell’artista tende al ribaltamento dei piani per una teatralità emblematica con chiari effetti scenografici. E qui è da rimarcare l’autonomia dell’artista sia dall’architettura di interni che da una realtà operativa, per il carattere neobarocco della consistenza scenica della sua pittura, priva di attributi naturalistici. La presenza fuori dal tempo di figure non è quindi da osservare come una recita dell’assurdo, ma come risultato di un raccordo trasversale, anch’esso postmoderno. Mentre negli interni scenografici le figure accennate hanno una funzione simbolica, nelle figure ravvicinate e nelle nature morte, che spesso coesistono nei lavori, la visione diventa metaforica. L’avvicinamento critico alle opere da parte dell’osservatore non è quindi facile né agevole: tanto immediata e gradevole è la lettura iniziale dei lavori, in una fantasmagoria di colori che lasciano intravedere lo spessore culturale di superfici sintetiche e pregnanti, quanto laboriosa e lunga è la ricerca di un sistematico avvicinamento approfondito. Le analisi devono per ora limitarsi a far conoscere gli aspetti di una fisionomia da seguire con attenzione e da collocare nel panorama artistico contemporaneo. L’artista non può esserci di aiuto in tal senso, perché altro è realizzare un’opera d’arte altro è avere la consapevolezza critica del fenomeno relativo. Quindi proprio nelle opere bisogna cercare il senso di tutto il lavoro. Tornando alle figure evocate, la sintesi che le unisce presenta pittoricamente un citazionismo che rimanda alla cultura del Moderno. Il riferimento pittorico più evidente è nel rimando all’opera di Chagall ( l’accostamento alla “Caduta dell’Angelo” del 1947 è puntuale per comprendere la maniera di mettere insieme i componenti pittorici) non solo per la presenza nel quadro “………….” del 2009 di una figura che ne richiama i tratti fisionomici, ma per la grande analogia tra la sapiente e celebratissima grafica chagalliana e la gestualità del segno calibrato e sicuro di Flavia; che sa trarre da questo citazionismo inconscio una linfa vitale per arrivare ad un ottimo risultato grafico. Non si tratta di una maniera operativa consapevole, perché l’evocazione di un’immagine non nasce da una costruzione voluta o da una imitazione, ma dall’attingere dalla memoria i riflessi di una cultura acquisita. Ecco perché Flavia trascura l’ansia del presente, recuperando l’aura surreale e onirica dei suoi quadri: non ha modelli da seguire ma la carica operativa della sua interiorità. È ammirevole e sorprendente come, aldilà della rappresentazione, ella riesca sempre a lasciare un’impronta personale sulla complessità di un percorso artistico che non ha mai toni consueti o prevedibili, ma che raggiunge ugualmente risultati omogenei e conclusivi. Flavia sa quando la sintesi è raggiunta: lo testimoniano i caratteri comuni delle invarianti di tutti i suoi lavori. La complessità postmoderna non la preoccupa. Anche i lavori che non sembrano avere rapporti con la riconoscibilità delle immagini hanno una definizione sapiente con stesure calibrate e fraseggi pittorici sempre essenziali. Il tirocinio didattico alla scuola di Massacesi, l’adesione alla cultura postmoderna e neobarocca, una operatività che, conseguentemente, evoca le immagini con un citazionismo puntuale, i primi risultati che hanno messo in luce personali caratteri di intimismo, complessità, trasversalità, teatralità emblematica e metaforica, hanno già definito una fisionomia artistica di rilievo. Non è ancora oggi il momento di tirare le somme del lavoro artistico di Flavia Mannucci: non siamo alla conclusione di un itinerario, ma solo all’inizio. Tuttavia è doveroso definire i caratteri di un esordio che ha in nuce i prodromi di uno svolgimento interessante, che già possiede una propria fisionomia, perfettamente in linea con le sue scelte linguistiche di campo e con la contemporaneità dei suoi modi artistici e personali.


TESTO CRITICO #2
(di Paola Di Felice)

I “luoghi” della cromia nella pittura di Flavia Mannucci
Nelle tele di Flavia Mannucci la realtà osservata si traduce in sintassi segnica esaltata da una cromia, quasi eco dilatata, che tocca ogni angolo sino a confondersi oltre la soglia dell’indistinto. I campi dell’osservazione dell’artista sono tavole dove l’occhio può esercitarsi fin che vuole per superare i confini del visibile; le tele luoghi aperti a cui affidare l’avventura della fantasia mentre la mente si immerge in una totale, fiduciosa attesa di qualcosa che il tempo suggerisce con i toni del sortilegio. Qui la vita sembra avere ritmi isocroni; i rapporti cromatici sono cicatrici sopraelevate che fanno da sponda alla memoria; i segni si offrono alla vista senza inganni; tutto si distende in una fiduciosa modularità; il guizzo dinamico delle forme traduce lo scenario emotivo di un’anima che cattura l’osservatore, immergendolo in uno stordimento sino a rendere alieno tutto ciò che è regolato da programmi e da algoritmi. Perché la pittura dell’artista è una miniera di sensazioni che, attraverso l’osservazione diretta della realtà che la circonda, raggruma emozioni in un tratto di tela o indica con un guizzo di giallo-oro lo stupore di un passaggio di luce. Così, guardandosi nelle tele, continua a stendere cromie per filmare ciò che l’attrae, per rivivere ricordi. O, piuttosto, per registrare come si sono evoluti vecchi soggetti, inglobati in un’area sentimentalmente, per così dire retrò, forse ingenua, dove il senso della solitudine e del disagio esistenziale veniva raccolto in contesti, apparentemente ricchi, pieni di una sorta di horror vacui, ma, in realtà, in contesti deserti. E tuttavia nel tempo la sua pittura acquista spessore, forza, e una sorta di musicalità che già si intravedeva nei tratti di risonanza spaziale del passato. Perché il “paesaggio” dell’anima si materializza, trascrivendo mondi invisibili attraverso una specie di ascetismo cromatico. Ne derivano tracce cospicue di una forte capacità di sintesi espressiva, tradotte in una visione fantastica e lirica, con segni dai tratti veloci, dai quali filtra il fatto emozionale nel morbido inglobarsi di pigmenti, a evocazione e sublimazione della propria interiorità. Perché tra lo sguardo e la realtà s’inserisce l’idea, affrancandosi dall’impegno formale con un segno e una stesura cromatica più prossimi al verbo creativo, sviluppando il pensiero quasi testualmente, con una specie di stenografia del cuore. Così i “paesaggi” di Mannucci sono dettati da una libera combinazione di dati scelti per l’empito percettivo che, da stratificazioni simboliche, conducono a fattori psicologico-emozionali. Flavia continua a vedere quello che vuole attorno a sé. Forse non è neppure mutato il segno delle sue prime espressioni artistiche che lei stessa ama definire naif con quel tanto che di inconsapevole, istintivo, intuitivo, guidava il suo “giovane” pennello. Ecco, un miraggio, qualcosa di immaginato come tutto ciò che è privilegio di chi sa leggere fra le righe dell’esistenza. E così l’occhio dell’osservatore è colpito dalla materia ricca, densa, pastosa che, aggregandosi, genera “segni dell’anima” sulla tela nella quale lo spazio della visione è delimitato con nettezza da un campo di colore all’interno del quale ogni guizzo cromatico, ogni movimento, ogni vibrazione d’intimo dinamismo si mescolano, esaltandosi in questo luogo privilegiato che a volte l’artista sfonda, superando il tracciato dell’impaginazione, quasi che lo spazio della sensibilità e dell’emozione possa ampliarsi senza confini, anche al di là di quelli che l’artista ci ha dato. Colori, dunque, con un ambito prospettico di chiara valenza percettiva, che tendono a moltiplicarsi di visione in visione, di tela in tela, sino a riempirne la superficie con nuclei pulsanti di vita che roteano come ciottoli luminosi in un caleidoscopio. Qui è agevole rintracciare le radici linguistiche della pittura di Mannucci, riportandola a quelle avanguardie volte alla conquista dello spazio-colore che caratterizzano con felice intensità i primi anni del nostro secolo e che trovano i primi campioni in artisti quali Raoul Dufy e Albert Parquet, per citarne solo alcuni. Così il cerchio, che da notazione naturalistica si è fatto spazio astratto per il maturare dell’immagine, si trasforma in dimensione della memoria mentre affiora, di tanto in tanto, un volto, l’elemento esile di una rarefatta antropizzazione della quale rimane solo un viso in controluce, occhieggiante, libera e affrancata da spazi siderali, cellula di un macrocosmo in cui si mescolano gli elementi di matrice newtoniana di cui la psiche rappresenta una felice microgenesi. Miniera di emozioni da colorare, da rendere cromaticamente e ricostruire l’avventura di un’anima che, partita da un’esperienza di solitudine, riapprova al macrocosmo dove nella solitudine interiore è il senso compiuto dell’individuo, all’interno di un universo complesso. È qui, in questo amalgama di colore, che adesso Flavia scopre, approdando ad una felice sintesi di luce cromatica, il senso della sofferenza dell’essere soli, del ruotare di più mondi entro il quale la sua anima vaga “pallidula” e “tremula”. Eppure entro la scatola prospettica pittorica non ci sono più azzeramenti esistenziali, gabbie cromatiche che imprigionano la sua esistenza. La luce sfonda i muri possenti di colori privi di assoluta trasparenza, lasciando circolare la leggerezza di nuove “atmosfere”. È la “laevitas” dell’esistenza di cui la memoria si riappropria: figure sfaldate emergono qua e là dalla psiche dell’artista ma non sono più le protagoniste di un’esistenza minata dalle fondamenta da una visione retrospettiva costante. Perciò, ancor più nelle ultime opere, il colore diventa forza costruttiva mentre la struttura del dipinto appare “luogo” per vivificare le larghe pennellate a restituire una forte impressione di ritmo. Così l’artista nei suoi “luoghi” guadagna le tre dimensioni, in un gioco di prospettive e di spazi costruiti da un alternarsi di colori chiari e scuri. La pittura, esaltata all’abbondanza della materia, diventa fortemente emblematica mentre il colore, la pasta in cui le forme sono stese, appare eloquente prima e più delle forme e riesce a dominare la luce, a condensarla, a oscurarla. Flavia Mannucci non rievoca più, non evoca ma presenta icone le cui ambiguità metamorfiche vanno subito al sodo di una suggestione di contemporaneità e investono lo spazio dello spettatore, coinvolto immediatamente, frontalmente dai “luoghi” della cromia costruiti dall’artista in un gioco di virtualità d’apparenze.


TESTO CRITICO #3
(di Maurizio Vitiello)

Propone elegantemente, in un ventaglio informale, composizioni caratterizzate da cromatismi ben regolati e capaci di suscitazioni sentimentali. In una seguitissima teoria di opere stabilisce equilibri con stesure avvedute e congrue, grazie, anche, a tocchi pittorici esperti, avvertiti e sentiti.


TESTO CRITICO #4
(di Leo Strozzieri)

Flavia Mannucci ovvero l'apologia della Natura
Musicali, luminose, umanistiche e sorprendentemente a la page le opere di Flavia Mannucci, artista abruzzese formatasi alla scuola di Gianni Massacesi in Silvi, maestro della pittura che è riuscito ad indirizzare generazioni di giovani verso la delicata e difficile pratica dell'arte intesa quale nutrimento dello spirito ed apologia dei valori estetici. Destinate a suscitare emozioni forti, le sue opere, magistrali per esecuzione e per opportuni riferimenti a neoavanguardie che diano il crisma della contemporaneità, riescono ad intercettare l'interesse del pubblico in virtù della loro capacità di raccontare un vissuto esistenziale e, perché no, ecologico in un contesto storico quale quello attuale molto sensibile proprio ai problemi dell'individuo e dell'ambiente. In altre parole ogni suo lavoro diventa un capitolo narrativo della propria esistenza che poi diviene paradigmatica per il lettore e del proprio habitat. Il corpus di lavori di questa artista, che ritengo essere una delle voci più autorevoli della ricerca al femminile in Italia, necessita di essere interpretato proprio alla luce di questi due perimetri, ovvero quello autobiografico e quello ambientale. Che in ogni opera d'arte, sia essa pittorica, musicale o letteraria, si rinnovi il rito di Narciso, è tesi ormai consolidata, anzi l'arte è un modo di donare spazio alle voci della propria personalità che mai totalmente potrà essere celata nonostante lo si voglia; ne farebbero fede e testimonianza dei lapsus che l'interessato non potrà mai controllare appieno. Ciò premesso, vediamo di cogliere l'identità di Flavia nelle sue opere. Raffinatissime nel cromatismo tonale e summa di molteplici esperienze visive, da quelle paesaggistiche mediterranee a quelle culturali degli impressionisti, dei macchiaioli e del naturalismo meridionale, in primis la Scuola di Posillipo, esse ci consegnano un'artista sfuggente, dalla personalità complessa perché apollinea e dionisiaca allo stesso tempo; come dire proiettata verso una visione lirica e talora elegiaca della realtà fonte d'ispirazione per i suoi dipinti, ma al contempo capace di accensioni passionali, come si conviene a persona di forte carattere. Di questo dialogo racchiuso in un'unica esperienza pittorica fanno fede da un lato quelle stupende atmosfere aurorali o serotine talora volutamente crepuscolari, ma non decadenti, dall'altro delle inquiete vibrazioni cromatiche affidate a pennellate gestuali che squarciano la soglia del convenzionale per traguardi di azzardo, che costituiscono anche uno sfondamento della prospettiva tradizionale. A tal proposito caratterizzazione emotiva diventa la frequente presenza in alcune fasi della sua ricerca della "graziosa" luna che pende ed è di conforto ai raffinatissimi scorci paesaggistici da lei dipinti. C'è ancora da indagare il perimetro ambientale entro cui Flavia Mannucci agilmente si muove. Potremmo sintetizzare questo suo rapporto empatico con la natura parlando di itinerario oltre la soglia del fenomenico. Intendo dire che l'artista cerca e trova netta natura motivo di evasione. Certo a lei non è estranea l'esperienza panica del conterraneo D'Annunzio, ovvero quell'immersione totale e totalizzante nella realtà esterna. Pan era il dio dei boschi ed anche pan è termine greco per indicare il tutto che armonizza in un abbraccio la creatura umana e la natura. Ancora una volta in Mannucci si affaccia la prospettiva dialettica: nel mentre lei avverte e gioisce per l'immersione nel grande ventre della natura, cerca di evaderne non sottostando alla riconoscibilità della visione naturalistica. Infatti il suo dipingere non è affatto consono al vero, consapevole che il fenomenico non rappresenta l'essenza delle cose a cui deve mirare l'artista. Riesce con grande maestria a sfuggire alla morsa mortale della sirena rappresentata dall'aspetto esteriore del mondo circostante. Al contrario sconfina oltre il visibile alla ricerca di orizzonti "altri", come possono essere quelli dell'intrinseca fertilità o in senso più ampio dell'energia della materia. Basti a questo proposito evidenziare certe intermittenze luministiche, o certi improvvisi bagliori che percorrono le superfici levigate delle tele; il tutto in grado di significare quell'energia creativa o quell'élan vital questa volta riferito a madre natura di cui parlava Bergson. Questi neumi coloristici e luminosi funzionano come una sorta di rivelazione di una vita profonda che ad esempio un obiettivo fotografico non potrebbe mai cogliere, ma che invece un'artista come Flavia è in grado di intuire. Il mistero di scenari più ampi: questa la prospettiva spaziale della pittura della nostra autrice. Ma al di là di queste considerazioni circa le implicanze autobiografiche ed il rapportarsi di Flavia al mondo, la sua pittura va letta e goduta per i coinvolgenti sostrati estetici e lirici che la impreziosiscono. Ed allora, dopo aver contestualizzato i suoi scenari entro l'area geografica del medio versante adriatico, pur nella tematica unitaria e costante, si rimane stupiti per i ritmi sempre innovativi nell'affrontare quel segmento del reale e per la facilità con cui di volta in volta viene allontanata la tentazione mimetica di esso, creando appositamente uno spazio nuovo intriso di luce e colore e svincolato da rigide regole compositive: ne fanno testimonianza certi inserimenti di figure umane che hanno un impatto quasi voluttuario sulle scenografie proposte. Mi spiego. Le presenze umane, mai descrittive, diventano vestigia di un desiderio di rapporto armonico con la natura incontaminata come ci è stata trasmessa per fare un esempio universalmente noto nelle opere di Turner che sappiamo molto amò il nostro paese visitato a più riprese nei suoi numerosi soggiorni. Mannucci non si sofferma sul mondo rurale con lo spirito di un Giuseppe Parini com'è documentato nell'ode "La vita rustica" che ritiene la campagna luogo di lavoro ove i contadini faticano per il bene collettivo; a lei interessa piuttosto l'atmosfera che smaterializza le scene mai dettagliate, ma vaghe nella spazialità e nel flusso rapido delle stesure riguardanti gli agenti atmosferici. Piuttosto rivive in lei, riattualizzata in un'epoca di così scarsa sensibilità per i problemi ambientali, l'esperienza dell'Arcadia attraverso cui riproporre un habitat di protezione, di idilliaca serenità, di conforto, di simbiosi stabile con madre terra. Un senso del tutto originale ai nostri giorni di intendere il percorso georgico spesso da tanti suoi colleghi praticato in una sorta di visione frontale per rilevarne il degrado con ovvie implicanze d'ordine sociologico e politico. Per esemplificare il concetto che si vuole esprimere, ci si potrebbe ad esempio chiedere: quale sarebbe oggi la reazione del citato Turner che nel gran tour del 1819 soggiornò a Napoli, di fronte alla situazione di emergenza del capoluogo partenopeo? Difficilmente avremmo nelle sue opere quella capacità di allargare il campo percettivo fino a sfiorare il sublime nella natura. Ecco, oggi l'artista che si accinga a praticare la pittura paesaggistica, diversamente dal passato, è costretto a rimuovere questi ostacoli dislocati sul territorio, al fine di renderlo ancora mitico, favolistico nel suo splendore primigenio. Flavia riesce in questa impresa, vuoi perché la sua terra d'origine da cui trae ispirazione, ovvero l'Abruzzo, non è poi così disastrato quanto ad ecosistema, vuoi per la sua innata indole nel lasciarsi attrarre dal nitore e dalla purezza incontaminata di una natura diremmo "platonica", alias di una natura reale svaporata delle violenze inferte dall'homo tecnologicus.


TESTO CRITICO #5
(di Claudio Lepri)

Atmosfere di grande pregio stilistico, assoluta personalità artistica e quei colori fluorescenti armonicamente disposti sulla tela definiscono in Flavia Mannucci un’artista di grande ispirazione sia nella tematica che nell’esecuzione. Al confine tra astrattismo e figurazione, Flavia Mannucci è interprete preveggente di un’arte museale, e meritevole di assoluto rilievo in ambito nazionale e internazionale.


TESTO CRITICO #6
(di Valeriano Venneri)

Flavia Mannucci libera, sulla tela, la propria interiorità: traduce la sua anima gentile e la delicatezza dei modi in colori, toni, sfumature, che accarezzano la tela. Le sue opere d'arte hanno un equilibrio compositivo e spaziale, pur essendo delle "esplosioni" di colore, che trasmettono serenità al fruitore. La vita e l'arte ivi si fondono, cossiché i contorni, i gesti, le linee fanno parte del quotidiano divengono un tutt'uno.